Glossario dei simboli
…L’anima frodata in vita del diritto/ divino, neppure fra l’ombre riposa;
ma io sarò ormai riuscito nella poesia,/ la santa, l’essenziale cosa…
Son pago seppur non m’accompagni quaggiù / la mia arte. una volta io vissi
Pari agli dèi, non occorre di più
(F. Hölderlin, 1798)
L’opera pittorica di D., una cosmografia o mitografia personale - è perfettamente riconoscibile, inimitabile e unitaria. La sua interpretazione risulta però più complessa, non tanto per ciò che esprime in sé, quanto per la ragione di dover entrare per la prima volta nel suo personale linguaggio “tecnico” e tracciarne delle coordinate alla ricerca di una definizione. Le sue fasi creative possono essere divise a grandi linee in tre momenti: la prima fase di sperimentazione 1968/70 che è essenzialmente caratterizzata, dall’invenzione di maschere, volti e capigliature con le prime apparizioni di case e fiori, oltre che dalle sue zucche; sono lavori nella maggioranza realizzati con matite colorate e qualche timida apparizione di pennelli. Nella seconda fase, 1970/78, D. raggiunge una sua propria maturità e sicurezza tecnica utilizzando e invadendo gli spazi di una sovrabbondante ricchezza di colore; dall’olio, alle matite, ai pennarelli, tempera, all’acquerello, tutto viene portato in campo. Si badi bene spesso per ragioni non di scelta, ma casuali visto che - per mancanza di soldi - non sempre aveva disponibilità del materiale di lavoro. Questa fase risulta essere la più corposa; egli completa il suo corollario espressivo simbolico con grande presenza di case, fiori alberi, falli. Se le maschere continueranno ad essere un leitmotiv nella sua produzione, queste del periodo centrale rimandano sempre all’universo espressivo felliniano, però con l’aggiunta di un tocco poetico che ricorda l’arte dell’amica Novella Parigini. Le case spesso ondulate e storte invece traggono un pur minimo stimolo da Chagall che egli amava moltissimo, anche se le motivazioni delle ondulazioni sono dovute all’avverso vento dell’Arpia, o delle forze del male. Entrano in campo con insistenza in questa fase le grandi “Fallofanie” con il “Priapo giovane” o “La danza dell’amore e della vita”, o anche pitture isolate elegantissime “Il gondoliere nella Venezia celeste”. La fase finale, 1978/84, quella aerea dominata dall’”Angelo invidiato” o da “Gruppi” o dalla “Arpia”, e dai perduti “Colli lunghi” – numerosi un tempo, ma di cui rimangono tre abbozzi e un disegno soltanto - si basa più sul movimento e la liberazione- purificazione dello spazio bianco. L’accanimento del riempire e intervenire su ogni angolo a disposizione si acquieta. Tramonta il colore ad olio e vi è un ritorno alle matite colorate con qualche tocco di altro o penne e pennarelli. Ben ricordo che D. e nel periodo della “Trattoria degli Studenti”, 1974/’80 e dall’81/83, allora ospite del nostro studio/prove “Spettro Sonoro”, influenzato forse dalle musiche informali e dissonanti che provavamo sia in trattoria che nello studio, tentò una specie di ammodernamento nei suoi disegni, sperimentando la tecnica di divisione e scomposizione dei suoi propri simboli/icone, quasi da far pensare ad una sua idea di cubismo. Purtroppo quegli stupendi tentativi, davvero sorprendenti e geniali, sono andati distrutti dall’acqua. Ne rimangono alcuni del 77/78 completi, e altri abbozzati, quanto basta per capire in quale direzione si stesse muovendo in quei suoi ultimi anni di vita.
Domenico Cerutti uno studioso d’arte che risulta essere a tutt’oggi la sola fonte interpretativa di D., così descrive nel 1982 l’opera la sua opera: “…Mi fa specie constatare come non ci si sia ancora accorti, con adeguatezza, del grande talento di questo maestro del colore, che merita veramente un’attenzione più significativa… La sua personalità passionale, decisamente ottimista, nel senso che ogni traversia costituisce per lui motivo di lotta per la vittoria, fiducioso, speranzoso ed altruista come un cavaliere bretone o come arcangelo fiammeggiante che punisce o premia o che separa i buoni dai cattivi e che traspare oltre che dall’epica delle sue composizioni, dalla lirica della sua stessa tavolozza, luminosissima, predominata dal rosa nella gamma di tonalità dalle più intense alle più tenui, sfumate nei toni violetti, lillacei e aranciati, [che] ne spiritualizza l’opera pittorica fino alla castità da ogni contaminazione materica. Il contesto naïf del resto, è puramente pretestuoso poiché, decisamente, il suo genere pittorico è un tipo di espressionismo metafico surrealista, del tutto sui generis, che s’innesta bellamente nel simbolismo espressionista del novecento italiano apportandovi una nota di particolare motivo vigorosamente satirico, fanciullescamente scanzonato, poeticamente serafico, pittoricamente ispirato e valido che lo risalta fra i più interessanti artisti del movimento espressionista mondiale”.
Vediamo ora di procedere con il tentativo di glossare i simboli costitutivi del vocabolario poetico ed espressivo di D.:
La zucca, primo oggetto di interesse, viene disegnata e colorata nel 1939. Prima di riavere disegni colorati passeranno quasi 30 anni e in essi e nuovamente presente. Essa appare, piccola o grande, in moltissimi lavori, fino agli ultimi anni; D. affermava che essa era il simbolo del suo passato contadino e che legava la fertilità della natura al suo frutto più grande: terra, acqua, eros, lavoro e cibo erano da considerarsi suoi elementi.
La maschera (e il volto) è anche l’altro simbolo perennemente presente nei lavori di D.; i volti dipinti sono forse rimembranza delle maschere della Commedia dell’arte della sua Venezia? Certo è che il fascino subito da D. dei volti/maschera in alcuni film di Fellini, sono state direttamente espresse a chi gliene domandasse l’origine; più tardi si aggiunse anche un tocco alla maniera della Parigini; è chiaro che non si tratta di influenze dirette, ma piuttosto di stimoli in quanto le sue maschere sono legate alla volontà di esprimere un mondo distorto, malato, deformante la bellezza dell’individuo; devono mantenere però il carattere di assurdità, di ironia e qualche minimo accenno ad una umanità che cova sotto quella maschera resa stucchevole e attonita dalle contrarietà dell’esistente. Sotto la maschera - non come il “Pulcinella” di Serafini, dove c’è il nulla e quindi essa coincide con l’apparenza e la realtà non essendovi altro – D. sperava un giorno risorgesse, opera della divinità, la verità. Egli stesso vive dentro quegli involucri frutto di una civiltà malata, e nell’attesa che passi l’epidemia, scherza e vive in quella dimensione onirica cercando di trovarvi asilo e di migliorarne le condizioni. Le maschere e i volti verranno applicati ai corpi delle fallofanie, all’Arpia, al testimone, ai piedi con testa. Nelle fallofanie la maschera è spesso caricaturale con fuoriuscita di lingua o anche abbellita come nel “Reve d’une jeune fille”. Un discorso tutto particolare riguarda della maschera, la
Capigliatura. Con grande intensità nel ’69 egli disegna varietà numerosissime e stravaganti di capigliature o pettinature, da farne quasi un’antologia per parrucchieri. Ma perché questa frenetica fertilità nell’invenzione di capigliature che poi continuerà anche nei quadri corali? D. parlava di mostrare sopra la testa la ricchezza dell’immaginazione; e anche quanto poteva uscire e mettersi in mostra in un cervello più libero, originale, creatore, artista. La maschera
Testimone o lo spettatore, compare nelle scene d’insieme, dietro le case o i fiori con un ambiguo sorriso da commedia; come dalla definizione nella Poetica di Aristotele: “Il ridicolo, (ciò che muove al riso o geloion γελοίον)… θ proprio come la maschera comica qualcosa di brutto e di stravolto senza sofferenza”.
La maschera dell’Arpia o della Sirena appare nell’ultimo periodo di D. a testimoniare come nell’antichitΰ una forza del male – portatrice di tempeste. Quattro o cinque disegni sono rimasti tra quelli distrutti, mostrano quella eterna presenza che si opponeva mandando in rovina i suoi progetti, soprattutto la casa. Dove θ presente l’Arpia tutti i segni nel quadro si muovono e si confondono quasi astrattizzandosi, a testimoniare la presenza della tempesta e del vento furioso che tutto distrugge: non θ perς in azione piena, θ piuttosto una presenza minacciosa. D. recitava spesso dall’Orlando Furioso la strofa sulle Arpie: “Erano sette in una schiera, e tutte/ Volto di donna avean, pallide e smorte,/ Per lunga fame attenuate e asciutte/ Orribili da vedere piω che la morte…”. Poi aveva fatto riferimento ad altri miti e giocava ai numeri: Esiodo ne nominava solo due, altri tre, e faceva risaltare appunto la differenza con Ariosto che ne annovera sette. Citava Dante “Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno/…Ali hanno late e colli e visi umani / Pie’ con artigli…”. Ma amava il verso di Virgilio dall’Eneide: Virginei volucrum vultus…”, perchι la furia devastatrice veniva da esseri affamati eppure puri e vergini. Forse a voler confessare come per un transfert che la possibile ragione della sua catastrofe sociale fosse lui stesso, ancora vergine per il mondo che doveva conoscerlo e tuttavia infuriato. Certamente questo simbolo tardo nella mitografia di D. θ uno dei piω negativi presenti nelle opere. Si tratta per caso di una specie di “furore eroico” descritto da Giordano Bruno nel suo saggio del 1585? Cosμ lo definisce il filosofo arrostito dall’Inquisizione: “Il furore eroico θ proprio dello spirito lucido.. che pressato dal gioco del desiderio e mosso da un interno stimolo e fervor naturale per la veritΰ, accende piω che ordinariamente il lume razionale”. Aveva visto previsto anche la sua impossibilitΰ di affermazione e di riconoscimento sociale?
La testa o la maschera sui piedi è una evidente icona/simbolo della mutilazione dell’uomo moderno conseguenza di una rinuncia freudiana al principio del piacere per il principio di necessità o in generale alla rinuncia dell’amore per la feticizzazione della merce. L’icona va comunque ricondotta allo spiritoso e brillante sarcasmo di D. In stretta connessione con quest’ultima icona D. utilizza
L’anello saturnale ricordo dell’età dell’oro sotto il dio Saturno, quando gli uomini vivevano in comunione felici, come in un paradiso terrestre, “dove scorrevano fiumi di latte e di miele, gli animali erano tutti mansueti e non bisognava lavorare la terra”. Forse l’aspetto che più visibilmente evidenzia l’esaltazione della vita in D. e rimanda a quello che si può definire il suo vitalismo erotico è ovviamente connesso ai falli e cioè alle
Fallofanie appunto. “Fallofania” è un termine inventato che vuole esprimere l’apparizione delle divinità falliche. I Sileni o Satiri che sfilavano a fallo eretto nelle processioni rituali del dio Dioniso (Bacco) ove erano presenti le Menadi, gli animali sacri, suonatori di strumenti e fallofori, i quali trasportavano il simulacro del fallo, quale simbolo della fecondità e della fertilità. Similmente capitava col figlio di Dioniso e di Afrodite, Priapo: egli corrisponde allo stesso fallo, simbolo della eterna forza rigenerativa della natura. Il suo volto Era, la madre degli dèi, lo volle bruttissimo, ed è quindi spesso raffigurato come un uomo rozzo, tarchiato e barbuto fornito di uno sproporzionato fallo. D. oltre all’albero della vita, alla zucca, alla casa, alla vulva, ai fiori usa in maniera quasi costante il fallo nei suoi quadri proprio a testimoniare l’esplosione della vita nel rigenerarsi della natura. Dalle due brevi escursioni a Napoli e a Pompei, nel 1969 e nell’82, riportava racconti sulle varie statuette, dipinti, mosaici in cui aveva visto varie rappresentazioni falliche e scene erotiche che lo meravigliarono in quanto simboli della vita. Ne aveva anche approfondita la conoscenza su libri d’arte. Anche la stauetta bronzea di Mercurio pentafallico del Museo Nazionale di Napoli, lo incantò, tanto da conservarne una foto. Ciò spiegherebbe perché alcune volte vi sono più falli attaccati ad uno stesso soggetto. Così collegò il mondo fallico alla rappresentazione della fecondità e fertilità della natura e la riversò nei suoi quadri. Spesso trasforma il fallo in una divinità simile al sole, vedi “Reve d’une jeune fille” e “Il trionfo di Priapo” o, eiaculazioni di petali e fiori che colorano la tristezza della terra abbandonata dall’amore, come nel suo “Quo vadis petit” o nel “Miracolo di Priapo”. Che tale visione rimandi ad Alberich (dal Rheingold di Wagner) che per il potere dell’oro, per i beni materiali rinuncia e ripudia l’amore o a Freia dea dell’amore rapita dai giganti e la cui assenza farà appassire la terra vecchia, grigia e grama, era un motivo ricorrente nelle discussioni con D., naturalmente sempre ironiche. Effettivamente l’amore che intorno sentiva mancarsi sin dalla nascita lo immaginava dover risorgere da quel suo colorato e vitalistico universo.
Così come carico di prorompente vitalità è il tronco o albero della vita o della conoscenza, con diretto riferimento biblico ove le prime creature umane mangiarono il frutto proibito. Anche a Zeus era sacra la quercia Dione o Dia, del cielo, che lo stesso dio supremo sposò nel più antico oracolo ellenico, Dodona. E l’immagine del grande albero del mondo che si innalza fino in cielo e con le radici nelle viscere della terra per rigenerare l’universo come si spiega nell’Edda di Snorri Sturluson (XIII sec.). I Finni adoravano l’albero cosmico i cui rami d’oro riempivano il cielo: la prosperità della vita e l’abbondanza sulla terra era frutto della sua presenza, o nel Tao degli antichi cinesi da cui spira ‘come un albero’ dal vuoto primordiale il soffio del creatore. Mi sono dilungato, e si potrebbe continuare all’infinito, sui vari significati che gli alberi hanno sempre avuto presso tutti i popoli. Proprio perché l’ostinazione con cui essi si presentano in moltissimi disegni di D. sta a dimostrare quanto per lui fosse importante sognare il legame col padre celeste, con i frutti di cui ricolmava la terra, pure per l’attributo della conoscenza, e per la bellezza, la sovranità e la forza. I suoi alberi, insieme ai
Fiori inondano infatti di bellezza e di colore la natura al punto che in lui diventano anche simboli di esplosione orgiastica, fondendosi e collegandosi ai falli, alle vulve e alle
Case. Quella della casa rappresenta l’icona più presente in tutta la sua produzione. Vi sono case e casette dappertutto. E’ chiaro che la casa in D. - per ragioni contingenti e inerenti alla sua propria terribile storia - rappresenta ciò che gli è stato sempre negato. E’ la casa che non ha mai avuto, è il fuoco familiare, è la vita domestica che dentro vi pulsa, è l’affetto caloroso della mamma, è il desiderio sessuale, è il luogo dove ripararsi dal male e dalle ostilità, dalle intemperie, è quella vita interna bramata il cui calore noi vediamo sempre raffigurato nei suoi comignoli che sputano fumo. Questo estremo valore negato, egli se lo costruisce nel quadro a suo piacimento e lo adorna di fiori, stradine, palizzate, lampioni. Rimane il raggiungimento e l’entrata difficile. Spesso infatti alle case ci si arriva con una
Scala in salita. Una scala, come quella di Giacobbe, alla cui cima c’è il paradiso, c’è Dio stesso… ed è una casa. Svariatissimi tipi di scale conducono con piacere alla porta principale della casa. Una specie di animale tanto amato da D.
l’Uccello, spesso presente nelle disegni d’insieme, ha funzioni di testimone animale, segue le scene, osserva, in alcuni disegni addirittura commenta come nella suo pornografica quadretto Pax et bonum madam. E’ un animale amico che anche nella vita egli difese contro “i cacciatori assassini”, e fu proprio D. uno tra i primi in Italia a contestare la caccia. Dell’uccello è anche raffigurato il
Nido contenente due uova. Il nido è un sinonimo di casa, che compete perfino agli animali e dove vibra la vita con le due uova che devono schiudersi. Non potendo mostrare o dipingere gli interni delle case, poiché gli sono negate dalla realtà sociale, il nido ha funzione di investigare un interno naturale.
Circa la centralità della casa nell’immaginario mondo di D., sono importanti aspetti realistici della vita quotidiana, anche in senso autobiografico; infatti egli immette un’icona spesso utilizzata nella sua opera, quella dei
Panni stesi fuori dalle case e anche a ricordare ciò che lui stesso lavava e stendeva fuori della sua baracca nella favela.
La tromba è anch’essa usata quale elemento autobiografico che alcune volte si presenta come riempitivo e altre prende la forma a tromba di un comignolo o di altri oggetti.
La spirale vuole rimandare alla chiocciola, anch’essa un simbolo della casa ma anche un segnale di pericolo; pure vale come desiderio ambivalente del riportare l’esterno all’interno e viceversa.
Il candelabro pure è una icona ricorrente nel suo vocabolario simbolico; è la luce del suo amato candelabro a tre bracci che possedeva; era la sua luce fatta di candele che gli permetteva nelle notti insonni e fredde di riscaldarsi e di continuare a disegnare e colorare. E’ anche trifallo, sempre acceso, eretto, desideroso di ‘appagarsi’ nel piacere. Spesso è associato ad altri numeri tre, come la terzina di tre crome, i tre soli, i tre occhi che sono appunto nel quadro “La trinità”. E’ in stretto rapporto col
Lampione e insieme concorrono a portare luce e altro calore alle case disegnate quali elementi provenienti dall’esterno autobiografico e, come invece altra sorgente di luce naturale interna al dipinto, carica di significati religiosi, vitali sta l’astro splendente del
Sole che rappresenta, come per tutti, l’origine della vita, ma anche testimone divino delle sue urgenze sociali. Contiene in sé tutti gli attributi cari a D., primo fra tutti la luce madre del colore e ironicamente in qualche quadro inventa, unico ch’io sappia, un mondo con due e tre soli, tanto, credo, per il bisogno infinito di calore e amore, altri attributi dell’astro. In relazione poi con la terra esso è origine della rigenerazione dei fiori, degli alberi, dei frutti, degli animali ovviamente in senso comune. Per D. è anche il padre sovrano che gli fu tolto come se fuori dal quadro lo circondassero le tenebre. E’ anche il sole che con il suo calore spinge gli uomini, gli animali ai desideri erotici e quindi alla fecondità e al riprodursi delle vita.
L’ombrello e la colonna sono simboli attigui: entrambi figurano rammendati con toppe; entrambi riparano dalle intemperie; ma la colonna non sostiene nessun tetto e rimanda alla storia e soprattutto alla storia personale, dell’esser nato colonna senza funzioni e senza tetto, senza bassorilievi nei timpani, andati perduti o distrutti, a spiegazione della storia familiare. L’ombrello è al contrario l’unico mezzo per ripararsi, è il suo piccolo tetto trasportabile. L’ombrello era sempre con D., anche nei giorni caldi d’estate. Lo usava la copertina di Linus, senza di esso rimaneva impotente. Era anche il sostituto del fioretto e lo usava per dar prova agli amici che incontrava, delle sue abilità nella scherma. Spesso li portava insieme, come nell’ultimo periodo. Nei dipinti figura di sovente tenuto da una figura femminile: anche qui estensione dei significati fallici? O bisogno di una donna e di un tetto?
Il ritmo di tre crome in terzina si ricollega alla sua firma che prevede un fioretto e appunto la terzina; è un segno come la casa, tra i più presenti nel suo corollario inventivo; non ha da solo un significato simbolico; rappresenta più una sigla e anche questa ritratta per motivi autobiografici: aveva studiato e suonato la tromba per parecchi anni; essa però si ricollega direttamente a quello che lo faceva più felice:
La musica scritta sui pentagrammi e il desiderio di unire musica e sogno insieme. Quando mi chiedeva di mettere un brano diretto da Toscanini o cantato dalla Callas, chiudeva quasi gli occhi, cadeva in trance e cominciava a canticchiare sottovoce o a dirigere dicendo alla fine spossato, vedi sono figlio di Toscanini, ma era chiaro che aveva viaggiato attraverso un delirio onirico. Aveva viaggiato attraverso l’intero universo che gli pareva un immenso strumento musicale e con quella musica s’era unito alla musica delle sfere e aveva visto l’angelo musicante che sta ai confini tra materia e spirito. Non mi sovviene se avesse letto Pitagora o meno, tuttavia, che io ricordi, non ne parlava mai. Il sogno come la musica per lui era incorporeo; il sogno non soffriva il dolore, viveva divino nell’aria a disposizione di tutti per essere preso tra le braccia e farlo avverare. Il sogno etereo è simile alla musica impalpabile che vibra come spirito nell’aria e ci nutre ed è materia tangibile; anche lei ha un corpo saldo, una forma: dobbiamo render vera la musica suonandola, allo stesso modo dobbiamo adoperarci per far avverare i sogni.
D. è la storia di un’ossessione per un sogno che vuole essere trasformato a tutti i costi in realtà o anche la storia di una vita negata che vuole cavalcare il sogno di una sua positiva realizzazione.
Ma qual era il suo principale sogno? Sempre lo stesso. La verità delle sue origini familiari. Dimostrare al mondo che egli non era un figlio del peccato; il suo talento, il suo genio la sua forza d’animo non potevano ammettere una madre e un padre malvagi. Questo è il motivo conduttore della vita e dell’opera di D., immaginare pensare a quell’origine, al focolare domestico: quelle case sempre presenti, i falli eretti che schizzano fiori, gioia vita, amore: quel fallo che lo aveva messo al mondo non poteva essere cattivo. Non era certo pudico o moralista, anzi il suo eros era sereno, libero, aristocratico, libertino, non certo piccolo-borghese.